Testimonianza di Carlo Iammarino
Sono un geometra dei Vigili del Fuoco di Macerata, un ufficiale come si diceva un tempo; quella terribile notte del 6 aprile 2009 ero di turno in caserma come Funzionario di Guardia.
Alla notizia del terremoto in Abruzzo, il Comando è immediatamente allertato per l’invio a L’Aquila di una sezione operativa composta da nove vigili, chiamati a prestare opera di soccorso per crolli con probabile coinvolgimento di persone.
Mi sono ricordato subito di un altro terremoto vissuto in prima persona, quello che colpì le Marche nel 1997, anche quel giorno ero di guardia.
Partiamo subito; le notizie giungono a rilento, ma si inizia a percepire il sentore di vittime e gravi danni alla città.
Sono in macchina con l’autista; cerco di avere notizie dalla prima sezione operativa che è già a L’Aquila ma non mi dicono molto.
All’uscita dell’autostrada c’è un posto di blocco, la Polizia lascia passare solo i Vigili del Fuoco. Più avanti, al casello, ci avvisano di fare attenzione ai viadotti perché ci sono gradini anche di 20 cm. Proseguiamo, oltrepassiamo il cavalcavia prima della città: sono in corso verifiche da parte dei tecnici dell’autostrada. A L’Aquila non ero mai stato prima.
Superiamo il blocco delle forze dell’ordine e ci dirigiamo verso la sede del Comando. Il colore rosso degli automezzi dei Vigili del Fuoco è predominante, come pure il suono delle sirene.
Lungo il percorso un servizio d’ordine ci agevola il passaggio. L’Aquila ci appare desolata: lungo le vie cumuli di macerie, case sventrate, polvere di calcinacci ovunque, presso la sede Vigili del Fuoco c’è un imponente schieramento di pompieri e di mezzi.
Vengo informato di una grave situazione in Via Don Luigi Sturzo, ove si contavano molti dispersi. Mi dicono: “i colleghi che stanno sul posto non ce la fanno più.
Ecco il tuo incarico: recati in Via Don Luigi Sturzo e organizza l’intervento”.
Via Sturzo è sotterrata dalle macerie, le palazzine crollate sono le ultime: due edifici di tre piani.
Mentre scendiamo lungo la via, una persona che risale mi dice: “non ce la fanno più, è da stanotte che stanno lavorando”. Troviamo solo quattro pompieri: uno di loro è in canottiera, ha le labbra bruciate, gli altri sono coperti di polvere, i guanti distrutti. Vicino a loro due corpi bloccati da una trave del sottotetto: si intravedono le gambe, mi urlano “non riusciamo a tirarli fuori, l’escavatore è troppo piccolo per sollevare la trave”. Abbiamo scavato sotto i corpi per recuperarli.
Ho capito cosa vuol dire trovarsi nel pieno di una catastrofe: ciò che è superabile, in quel momento appare impossibile.
Nell’aria si avverte un odore strano, non particolarmente sgradevole ma insolito, mai sentito prima, non saprei descriverlo.
Intorno a me c’è tanta gente che cerca aiuto, e io ho bisogno di più uomini, molti di più; quei quattro dovevano riposarsi, bisognava organizzare tutto.
Chiedo rinforzi e dopo cinque minuti ci affiancano le sezioni operative di Terni, Livorno e Massa Carrara con un secondo escavatore di una ditta privata.
Veniamo a sapere che sotto quelle macerie ci sono almeno cinquanta corpi.
L’area operativa è scomoda, stretta ed è situata sotto un muraglione alto sei metri; tutti i vigili si sono messi al lavoro subito, nessuno si è tirato indietro e nessuno ha recriminato. Il sisma si fa sentire ogni tanto, il muro sopra la strada trema e dobbiamo tenerlo d’occhio.
Un uomo di disegna su un foglio la piantina dei fabbricati con le varie presenze: cerca sua madre.
Mentre scaviamo, mettiamo da parte quello che troviamo: album fotografici, zainetti di scuola, racchette da tennis, oggetti privi di valore ma che avrebbero potuto rappresentare un caro ricordo per qualcuno.
Ho organizzato squadre, individuato aree operative, fatto ruotare il personale disponendo turni di riposo; nessuno dei vigili ha chiesto nulla n* ha mai protestato: bastava uno sguardo per capirsi. Nel nostro ambiente si sente spesso dire che “chi salva una vita salva il mondo intero”. Ecco cosa avrei desiderato. Ma per me e la mia squadra purtroppo non è stato così.
Serbo ancora memoria della forza con cui mi stringevano i genitori, gli amici e i parenti delle vittime, e ho in mente il gusto di una caramella, dopo ore di digiuno, che un ragazzo mi ha offerto mentre aspettava di ritrovare sua madre.
Il bilancio delle vittime è stato pesante: 26 corpi, nessuno vivo, 30 ore di impegno continuo e ininterrotto.
La compostezza e gli apprezzamenti ricevuti, i “grazie” per aver trovato un corpo esamine, non sono gesti che si dimenticano, come non posso dimenticare il volto di un cronista che si è allontanato per scoppiare in un pianto interminabile.
Riparto poco prima di sera per il campo base. Mi dà fastidio il silenzio in macchina, frastornato com’ero dai rumori della giornata: elicotteri, sirene, ruspe…
Passiamo davanti alla Casa dello Studente illuminata a giorno, assediata da telecamere fisse. Vi intravedo Bruno Vespa che, in diretta, stava mandando in onda la telecronaca di quegli avvenimenti.
Quanti elmi… veramente tanti!
In Via Sturzo le telecamere non hanno fatto riprese, né tantomeno quella strada è stata mai menzionata dai telegiornali, eppure è in quella via che ci sono stati più morti.
Arriviamo a Coppito. Il campo base dei Vigili del Fuoco delle Marche è in allestimento. Ci laviamo nella palestra della Guardia di Finanza, è pronto per noi un pasto caldo e andiamo a riposare in tenda in branda e sacco a pelo. All’una di notte circa, il gruppo elettrogeno si spegne perché per un problema tecnico non arriva il combustibile. La temperatura nella tenda dopo pochi minuti scende forse a due/tre gradi, ho avuto freddo, mai così tanto in vita mia.
Macerata, 21 settembre 2009
Orgoglioso di essere un Vigile del Fuoco Carlo Iammarino